di Maria Grazia Guastaferro
Venerdì 13, 13 brani, una bolla, è finita la pace. Non un feat, non un singolo.
Un gesto compatto che sfida le regole dell’industria musicale e dei numeri, senza le scuse della nicchia e del per pochi, anzi sfida i numeri senza le regole dei numeri ma impone le sue, non lascia il tempo nemmeno di stropicciarsi gli occhi: signori, la musica fa questo, buongiorno.
Il disco, in realtà, è un lunghissimo feat con sé stesso, la dichiarazione di un’evoluzione. Richiama tutti i suoi sé e tutti rispondono all’appello, in fila, schierati. Sul finire di Noi, loro e gli altri ce lo aveva detto: forse sono libero.
“Da tutta quella roba introspettiva” dirà in un’intervista, ma non per rinnegarla, piuttosto per tornare più puramente e duramente Hip Hop. Respira, è pronto. Riprende da dove aveva lasciato. Power slap è un intro a larghe spalle, che plana dall’alto, un manifesto Hip Hop che fa quello che fa l’Hip Hop, fa scratching, va dalla parte opposta, tuona su tutta la scena, sa dove intingere la penna, con le buone le cose non si cambiano, da sempre, beccatevi ‘sta sberla e sia chiaro a tutti: questo è un disco serio.
Il Marra che avanza in Crash è quello che viene dal suo sud sudicio, dal fottuto ciclo dei vinti, lo stesso che ci cago sul trono e ribadisce che l’Hip Hop è un fatto politico e tale resta, politico non nel senso di chi vota una parte ma di chi sceglie da che parte stare. Questo secondo pezzo è rappato da un grattacielo, guardando giù con ali statuarie, ma Marra non è solo un angelo di Wim Wenders, lo sa e precipita verso terra, ed è il Marra di fino a qui tutto bene che ne gli sbandati hanno perso riesce a scattare l’istantanea di un’intera folla, raccoglie una voce corale, degli uomini soli accomunati da una condizione comune piuttosto che da un ceto, un gruppo. Lo sbang con cui sbatte a terra è la dolce voce di Ivan Graziani. In È finita la pace, l’inquadratura cambia, dalla vista a volo d’uccello al piano all’americana: guarda negli occhi la gente ma resta cosciente del contesto. Entra sul campionamento mostrando i denti che aveva affilato già in Persona cantando “bene quasi quanto faccio rap come se ci fosse Marracash featuring Marracash” e stavolta è vero. Anche il suo canto è triste triste ma è un triste alla Marra, e cioè senza mai lasciarti senza una carezza, di quelle date col dorso di due dita, di consolazione intima senza eccessi e isterismi.
Ancora triste ma di una tristezza più straniante e anche incazzata: gli occhi che ti guardano in Detox/Rehab sono gli stessi del Marra di sogni non tuoi, che stavolta però attraversa le sfilate delle maschere senza più sentirsi a disagio perché ora ha un posto dove stare, un pianeta: sé stesso.
E la solitudine è la risposta all’includersi come ossessione, una resistenza placida raccontata con alcune delle pennellate di versi più belle del disco, che si aggrappa alla voce dei Pooh, troppo italiana e di tutti per non abbracciarci subito.
Mi sono innamorato di un AI è la cerniera del disco, il pezzo in cui si concede quella sua ironia che trapela nei cambi di voce, è uno degli altri Marra che ha risposto all’appello, provocatorio, irriverente e senza drammi, perché l’unico dramma è la mancanza di intelligenza, quella umana.
Factotum e Vittima sono due brani allo specchio. Nel primo un quadro, di quelli ancora necessari ma che pare siano diventati poco interessanti e non in trend, delle vittime che resistono ad accettarsi in quanto tali, che imparano a rinunciare a tutto tranne che alla dignità. Sono la massa silenziosa che non ha nemmeno il tempo di ostentare ciò che non ha, perché impegnata a provare a volersi bene malgrado il precariato, ed è la massa a cui il disco, implicitamente o meno, si rivolge. Vittima è dall’altra parte dello specchio, racconta invece un trend in voga, un atteggiamento diffuso eppure qui Marracash decide di non sferzare la penna, dimostra di esser maturo davvero, non cede ad una pur comprensibile presa in giro ma si avvicina con una gentilezza sua, altra carezza breve, a due dita: quindi cambia.
Da *roie del 2010 a Troi* son trascorsi 14 anni. Nel frattempo, è successo quel che era inevitabile che succedesse: è scoppiata la bolla del femminismo, che è una bolla perché spesso è svuotato di senso e sostanza, diventa pretesa di asterischi e distanze, di regole su regole che finiscono per imbrigliare di più tutti e soprattutto tutte, altro che libertà. La musica ci sguazza spesso, il femminismo è il trend. Da un lato l’immaginario del rap incapace di evolversi (se non per poche eccezioni) dall’altro una musica pop che sembra aggrapparsi alle bandiere rosa più per darsi uno spessore che per consapevolezza. Marra ce lo ha detto chiaro nel disco precedente: dovrebbe zittirsi il rumore di fondo, blaterare di cose che non si sanno. La cosa che sa, invece, è semplice, banale, vera: la dice senza nessun ricorso a questa o quella simbologia, senza mettersi addosso battaglie non sue la penna va dritta e centra il punto: non c’è un termine maschile. L’asterisco del 2010 ha fatto un salto e forse è la prima volta che a vederlo mi sembra utile, perché compie un gesto di giustizia. Semplice, com’è la giustizia, come questo pezzo necessario. E se Lei è per una donna che non esiste, in realtà regala, forse suo malgrado, un omaggio alle donne che sanno che all’inizio di questo millennio c’è una partita importante, che siamo agli esordi e non possiamo perdercela vendendo make-up e mascara tra un mal citato di Angela Davis e un hashtag. È ancora la massa silenziosa delle lei che fuori dalla bolla dei social sa da sé come esser bella, fa i conti con l’io e la storia fuori dalle etichette comode e scomode che siano ed è cosciente che la consapevolezza è l’atto politico quotidiano più importante e difficile, difficile perché richiede una dose di profonda sincerità con se stessi, un’azione di autoanalisi limpida anche quando scomoda, dolorosa, la stessa con cui Marra scrive Pentothal. Primissimo piano stavolta, a spiare le smorfie che celano reticenze.
Il disco però non termina con amarezza. Prima che la bolla esploda, c’è un happy end senza felici e contenti, ed il king è lo stesso di sabbie mobili, ci ha messo anni senza agitarsi, consapevolezza è il nome che dà alla pace che non finisce. Finisce così il disco, Marra finisce il film, posa la cinepresa da regista, posa la penna. L’ha tenuta ferma, costante per 50 minuti, senza mai tentennare, senza le scappatoie – di cui in Italia il genere è troppo pieno- che nascondono rime non incastrate bene, versi appesi. Signori, Fabio Rizzo lo ha fatto nella non comoda lingua italiana. Questo è il livello, il flow, il rap game. È finita la pace.