Sono sempre un po’ immedesimato in quelle che potevano essere delle situazioni che avevo riportato. Poi invece parlo molto più di me, quindi erano cose che dovevo dire, volevo dire, ma non c’era mai stata l’occasione.
Ape, per Aelle Magazine, con un saluto old school e true school che ormai ci distingue. Ma senti, tu sei appena uscito con un singolo, in preparazione ad un album che sarà fuori, o è già fuori da poco? “Rapstar” è già fuori, “Rapstar” che racconta un po’ di desideri non corrisposti da parte della tua carriera, che poi è sempre relativo. Ma allora l’idea era quella di fare sempre un pezzo che raccontasse, che fosse un banger conscious (se ancora queste definizioni hanno senso), ed era un po’ l’obiettivo quello di raccontare quello che è stato il mio percorso. Ma anche come oggi uno che fa la Rapstar si può sentire, visto che oggi è tutto interconnesso, diventare personaggio. Un singolo dopo l’altro, tutti partono che magari sono anche fortissimi a fare rap fatto bene. Poi però, per forza di cose, il compromesso è che lo devi fare. E quindi ho provato a immaginarmi come uno che è costretto a fare delle robe, che alla fine è giusto fare perché per stare in quel mondo ha senso farle. Magari poi c’è l’effetto collaterale, che ti senti un po’ sfruttato. Anche parlo dell’entourage che ti sta intorno. Quindi ho cercato di ragionare in entrambi i sensi.
Sul discorso dei rimpianti, in realtà se avessi dovuto averli sarebbero usciti molto prima. In realtà è una considerazione a posteriori. E sta piacendo, quindi diciamo che la chiave è stata azzeccata.
Disco tutto prodotto da Il Papi, sì, tranne una produzione che la fa Robby Budget, che è un ragazzo che esce con noi però ha quattro mani con Il Papi. Quindi ci stava anche un featuring alle macchine. Perché alla fine col Papi lavoriamo dal 2018, dopo “Gemelli”, per “Leftovers”. Però un disco intero io con lui non l’avevamo mai fatto. Siccome ci troviamo molto bene perché riesce a completarmi molto in studio, nel senso che fa un po’ di direzione artistica, che è la roba che magari a me un po’ manca perché potrei farla a un altro. Ma su me stesso sono un po’ troppo fissato. E quindi il binomio ha funzionato, perché aveva detto: “Vabbè, a questo punto facciamo un disco”. Quindi sono questi dieci pezzi, poi li sentirete. “Lettere mai scritte”
“Lettere mai scritte” è un altro titolo abbastanza reminiscente. Che cos’è che non l’avevi mai scritto dopo anni di rap?
Cose così tanto personali e così tanto vissute, legate a cose che mi sono successe negli ultimi anni. Ho sempre scritto cose di contenuto dove chiunque ci si può identificare, e è sempre stata una cosa che è piaciuta. Però mi sono sempre un po’ immedesimato in quelle che potevano essere delle situazioni che avevo riportato. Poi invece parlo molto più di me, quindi erano cose che dovevo dire, volevo dire, ma non c’era mai stata l’occasione.
E quindi sono un po’ più intimi come pezzi. Ho iniziato a lavorare con Il Papi, quindi di avere una certa sicurezza dal lato produzioni. Sono riuscito anche a tirar fuori un po’ più di cose insolite da quello che normalmente ho fatto, non tanto come testi ma anche in qualche ritornello o in qualche contenuto un po’ troppo intimo, che magari gli anni fa non avrei mai avuto voglia di raccontare. È arrivato il momento di farlo.
Sì, sì, anche perché, voglio dire, questo è l’undicesimo. Quindi dopo un po’, cioè, la mia ricetta è sempre quella: cerco di aggiornarmi guardando a quelle che sono le sonorità che vanno di moda adesso, ma sempre quella parte di sonorità che vanno di moda che riesco a rimettermi sopra. E quindi dopo un po’ bisogna osare. Quindi è sempre un disco, come dicono molti, “all’Ape”, però con sfumature diverse.
Anche “Rapstar” stessa comunque ha una produzione un po’ particolare, una roba dove quando me l’ha fatta sentire Il Papi nemmeno io pensavo di farci il pezzo. Invece in 20 minuti è uscito. Quindi osare un pochino serve anche per uscire dalla zona di comfort.
Sì, altrimenti non fai 11 dischi. Se vuoi fare sempre lo stesso disco… No, puoi fare sempre lo stesso disco, c’è gente che ha una carriera che ha funzionato così. Ma siccome la mia non è propriamente una carriera, perché è solo passione, posso fare un disco, star fermo 4 anni. Però poi quando lo rifaccio deve avere una connotazione ben precisa. Adesso che ho finito questo, ho già un’idea per farne un altro completamente diverso. Però, voglio dire, è giusto osare perché almeno rimane la parte di divertimento per te e per chi ascolta.
Che cos’è stato lo stimolo, al di là del racconto e dell’introspezione, che ti ha spinto a dire “Facciamo un disco dopo 4 anni di stop”? Allora, avevo detto che era l’ultimo disco, il decimo, col vinile. Ma perché, cioè, per un tema proprio di come oggi la musica viene percepita… La lunga distanza, forse anche io mi stanco un po’. Un disco lungo non faccio fatica, soprattutto un disco rap. Magari un disco rock di un altro genere, 15-20 pezzi di ascolto… E poi cazzo, uno magari fa un disco e ci mette un anno, perché tra una roba e l’altra se non fai quello di lavoro ci metti almeno un anno. E poi non dura un cazzo. E quindi ho detto, lavoriamo con dei singoli. Però per come piace a me il rap, mi sono accorto che lavorare con i singoli sono episodi troppo piccoli per raccontarsi. E quindi ho detto, fanculo, facciamo un altro disco. E questa è diciamo la sintesi. L’idea adesso è di fare progetti di questo tipo: non più di 10 pezzi, non più di mezz’ora, che è un compromesso tra il tempo che ci dedichi e quanto poi dura.
E poi uno dei motivi per cui ho deciso di rimettermi è che la gente lo voleva. Non avevo un pubblico, però i miei fedeli me lo chiedevano. E quindi a furia di dover dire “no, è l’ultimo disco, farò solo singoli”, a un certo punto ho detto: “Sai che c’è? Facciamo un altro disco”.
Certo, è bello che gli stimoli vengano anche da fuori per fare un’introspezione. Ma in ogni caso anche il pubblico poi ha voglia di sentire qualcosa di tuo. Lei è abituato a una determinata maniera di scrivere, di interpretare i pezzi. Hai un tuo stile, sei riconoscibile, ti chiedono ancora cose. E poi è live anche.
È live?
Dal vivo. Eh, questa è una cosa bella. Io dal vivo mi sto togliendo tantissime soddisfazioni, più adesso che non ai tempi. Perché ai tempi, quando erano usciti i dischi di Vibra, che è il periodo diciamo… I dischi di Vibra sono il motivo per cui oggi, cioè, pur essendo un outsider posso ancora pubblicare roba, grazie a Zeta e grazie a tutta la situazione, e grazie ovviamente a Bassi. Perché poi tutto è partito dalla famosa strofa di “Giorni Matti”.
Certo, la consacrazione. Sono uno dei tanti che è stato battezzato da Bassi nel momento giusto e poi è andato avanti con le sue gambe. E dal vivo, cioè, ho avuto poche occasioni per esprimermi in quel periodo perché c’erano pochi live, almeno ne ho fatti pochi. E adesso che si ha un live da 300 persone, un live da 30, ho molta energia, riesco ancora a farli molto bene, mi diverto un casino da solo. Il Papi in console senza doppie, mono voce.
E quella è la roba più… Lì c’è proprio il concetto di prestazione, ok? E poi di prove, quindi divento maniacale. Provo 20 volte al giorno se devo fare un live e mi interessa che quella parte lì funzioni.
“Per fare live devi far uscire roba, perché sennò non sei notiziabile.” Mi interessano due aspetti, quello innanzitutto della maturità del rapper, perché non è un aspetto scontato. 20 anni fa non l’avremmo mai detto che ci saremmo trovati qua 20 anni dopo in stazione centrale a parlare di un tuo disco nuovo, l’undicesimo. Nessuno poteva prevedere, visto che 20 anni fa vi hanno parlato da dietro.
“Esatto, esatto. Perché la redazione di Groove, il giornale per cui sia io che Sid lavoravamo, era proprio qua dietro. Per cui ci siamo visti per raccontare quello e poi tutti gli altri progetti a seguire. Adesso 20 anni dopo… Maturità dal punto di vista intellettuale, fisiologico e anche come rapper, perché cambia la maniera di fare musica nel tempo.”
Allora adesso la roba bella è che il rap è diventato di moda, sì. Quindi essendo diventato di moda è sdoganato, ok. E quindi il fatto che vadano di moda delle cose che poi magari a chi viene dal nostro periodo non piacciono, però crea più spazio per tutti. Quindi è una cosa positiva.
Cioè la roba bella è che mia figlia ascolta magari i rapper di adesso, ma visto che sono usciti col disco si ascolta anche qualche canzone dei Club Dogo. Certo, mia figlia ha 17 anni, ed è bella questa roba qua. Cioè questo andare a riprendere cose… Cioè chi cazzo mai avrebbe pensato che mia figlia in macchina mi dicesse “Mettimi i Club Dogo”? Chiaro, ok. E questo è… La maturità con cui vivo il rap adesso è questa qua. Cioè che è il genere che ascolta mia figlia con le sue coetanee e che va di moda sugli adolescenti. Quando ho iniziato io nel paesino in provincia, cioè eri l’alieno, eri quello che dicevano “Ma come cazzo si veste questo?”
Adesso è esattamente il contrario. Chi fa rap è quello più popolare, più figo. Anche perché poi tutti adesso hanno preso la piega un po’ gangsta, un po’… Fa figo adesso essere un rapper. Però per me è una cosa normale, è come respirare. Cioè nel senso, è come andare in bicicletta, non ti dimentichi mai di farlo. E quindi nel momento in cui decido che devo fare dei pezzi, devo fare il disco, mi metto a farlo. Mi sento la responsabilità di quello che scrivo, però io questa roba me la sentivo anche a vent’anni, quindi per me non è un problema.
Quello che voglio evitare di fare è di fare quello che torna con l’esperienza old school che però è capace solo di criticare. Quindi su questa roba secondo me bisogna stare molto attenti, perché anche le cose oggi più commerciali qualcosa da insegnare ce l’hanno. Anche la cosa che magari poi dice “Vabbè questa parola è troppo spinta”… Io cerco di ascoltare anche quelle, non è che me le pompo, le ascolto per capirle. Però qualcosa te lo porti a casa.
Quindi io la vivo così: ascolto, sento anche le robe nuove. Però chiaramente poi la cosa che mi va da riascoltare sono le sonorità un pochino più… un pochino più vicine a me. J Cole, per farti capire, una sintesi di un rapper che mi piace molto, che usa suoni moderni però ha un’impostazione abbastanza classica.
[Interruzione per la sveglia]
Dicevamo da una parte la maturità di fare il rap, e quindi che è uno sport approcciabile anche sopra i 40. Direi che è un risultato della scena di 20 anni fa che si approccia al giorno d’oggi. Tanti rapper 40enni bravi, ancora bravi, sempre bravi… Mi viene da dire: non ho mai smesso di esserlo, sempre attuale.
L’altra cosa che invece mi interessa… So che ti alleni tanto, hai un rapporto con il tuo fisico non da 40enne seduto ma da 40enne attivo, diciamo così. E anche questo probabilmente ha a che fare con la tua voglia di esprimerti dal vivo. È una forma di confidenza con la tua capacità di tenere un palco a livello fisico, a livello di fiato, prestazione aerobica.
Alla fine sì, perché io mi alleno da sempre, praticamente da quando ho iniziato a pubblicare dischi. In parallelo ho iniziato anche ad avvicinarmi al mondo della palestra. E sì, il concetto di prestazione ce l’ho soprattutto per i live. Il fiato, quella roba lì a me piace ancora. Poi mi rendo conto che non la colgono tutti, però chi la coglie, la capisce, poi si gasano. Quindi hai detto la parola giusta: il concetto di prestazione è applicato anche al fatto di fare rap dal vivo.
Che cosa ti pompi adesso? Allora adesso sono abbastanza infissa con le robe mezze country. Ok, Jelly Roll…
Certo, Yellow Wolf.
Jelly Roll che adesso ha fatto questa evoluzione, è passato praticamente al country. Gli ultimi dischi sono country, che l’ho scoperto qualche anno fa. Non aveva l’idea delle sonorità che utilizzavo. Un rapper bianco, prova a canticchiare, però comunque faceva roba in New School. Quindi quell’evoluzione lì mi piace, un’evoluzione che non c’entra una minchia con me. Ma è vero…
Sì però no, musicalmente no. Mi incuriosisce il concetto di country.
Sei sempre stato quello che ha sempre vissuto fuori dalla città… Vabbè quello sì, è una provincia, un countryside. Sono due cose diverse ma in qualche maniera hanno un approccio extraurbano.
Extraurbano sì. Però è vero, e anche intimista.
Anche di racconto di una realtà che non è quella…
Beh quello sì, della sfatica. Perché se senti le robe di Jelly Roll è molto personale, cioè parla molto di lui. Intendevo più che altro la parte del cantare, quella ho usato in qualche ritornello. Ma non è proprio cantare, è una reppata un po’ più melodica. Però quella roba lì è figa. E da lì sto provando a esplorare altre robe country, che non mi piacciono tutte perché alcune sono proprio country in vecchia maniera. E altre cose… Vabbè J Cole, mi pompo sempre il caro vecchio QG Rap. Mi sto recuperando tanto gli Outcast, sono in una fase molto di recupero. Però per dire anche Joyner Lucas…
Sì…
Che è forte. E poi un sacco di rapper che escono da Albert. Mi viene in mente… Adesso il problema della musica di adesso è che non comprando i dischi, io faccio fatica a ricordarmi i nomi degli artisti e i titoli.
Ho una playlist con “Entro il mondo”. Ci sono un sacco di rapper minori che fanno, secondo me, robe molto fighe. Tipo il giro sempre della Dreamville, ci sono Lute, Goats che sono molto forti. Però Rison che riescono ad avere un buon compromesso tra le sonorità moderne e le cose un pochino più vecchie, più Golden Age.
Mi ha un po’ stufato, ma non perché non mi piace, mi ha un po’ stufato il giro Griselda che è un po’ standardizzato. Di loro, che ormai non è più neanche Griselda, mi piace Benny.
Certo, è fortissimo perché ogni tanto tira fuori anche delle sonorità diverse. Il disco quello che ha fatto dovrebbe essere “Trust the Sopranos” che ha delle produzioni…
Esatto, che ha delle produzioni di gusto molto anni ’80, comunque dei campioni particolari. Quella roba lì è geniale. Non dicono un cazzo però è fatta bene.
Certo, perché adesso si è un po’ standardizzato quel tipo di rap. Quindi in tanti lo provano a fare così, ma ne esce talmente tanto… Non riesci neanche a stargli dietro, non riesci neanche a stargli dietro.
Poi ce n’è uno fortissimo che ce l’ho qua, te lo faccio vedere. Usiamo lo smartphone per una volta, per qualcosa di non interruttivo. Questo qua, questo è un pazzo secondo me. Te l’ho scoperto perché è uno forte, tipo questo qui Alligatorelli Shotti. È sempre una cosa abbastanza country perché si parla di…
No, no, no. È tipo una griseldata però è Florida, quindi è qualcosa della Florida che lo fa. Per dire un sacco di roba così che tu non sai neanche chi cazzo sono, però te li salvi e te li ascolti.
Ci sta. Vabbè, Logic…
Chiaro. Vabbè, questo qua, dai. Ti fai… Poi questa è la mia playlist di Vasco.
Beh, questa non può mancare. Io mi sono sempre molto ispirato Big Hit, il padre di Hit Boy.
Sì, questo è Jelly Roll, Jelly Lucas, questo qua… Questo, Paul Walker. Non me lo sono mai cagato perché ai tempi aveva i denti… Dicevo, chi è ‘sto coglione? Invece è fortissimo, questo disco che è una bomba.
E poi qua mi sono scaricato tutte le mie robe, così quando me le chiedono le faccio vedere. E questa… Questa qua è la playlist che chiunque dovrebbe avere. Per me una playlist è i dischi più belli. Quindi c’è questo qua Outkast, Neffa, che non può mancare, Mobb Deep.
Ok, questa dovremmo farla diventare una rubrica fissa. Open New York, Tupac anche. Beh, non manca nulla, queste robe qua.
Io ero interessato perché credo che anche per te il rap sia sempre una ricerca, sia di scrittura che di contenuto, che di allure in generale. Il musicale proprio al 100%. E quindi tu non puoi smettere di studiare se lo vuoi fare, altrimenti faresti veramente 11 dischi tutti uguali, perché sei tu e finito, basta.
Invece è un cerchio aperto da cui si impara sempre da colpire. E tanto a roba vecchia che ai tempi magari non l’avevo capito bene, a volte ti ispira molto più quella di una roba nuova. Perché comunque ci sono tante cose che ai tempi sono uscite e poi le ho vissute in maniera diversa. Lil Wayne… Ai tempi già solo guardavi le copertine, dicevi “Ma cos’è sta roba qua?”
E quindi magari ci si fermava lì perché dicevi “Vabbè, East Coast”. Poi cazzo, continua a non piacermi tanto, però se ti ascolti i testi è una qualità della Madonna. Non è la mia roba, e quindi la ricerca è anche quello. Non per forza una cosa poi ti deve piacere, però ti prendi un pezzo di quella roba lì e provi a farlo tuo.
Io bene o male faccio così e sto provando a pescare anche ad altri generi, perché soprattutto in sottofondo, guida o in momenti normali, magari a volte sono più anche le robe rock classico che ti aprono un po’ di più. Il rap è… Sono parte del background classico e ci sta bene. E anche lì con gli anni mi sono aperto un po’, perché ai tempi “No figo, un disco rock, figura che”, non è da B-Boy. Invece poi non è così, non è così. Quindi dovete ascoltare anche le robe di altri generi, perché poi ve ne pentirete.
E ascoltate anche il disco di Ape!
Non dimenticatevi di iscrivervi al canale YouTube di AL, lo ricordiamo.
Mi iscriverò anche io perché non sono ancora iscritto. Lo metto e mi iscriverò anche alla mailing list. Anche se io posso dire di avere una pila così di AL, quindi io gli articoli vecchi li ho originali.
Perfetto, grazie Ape.
Ci vediamo alla prossima.
Ape, per Aelle Magazine, con un saluto old school e true school che ormai ci distingue. Ma senti, tu sei appena uscito con un singolo, in preparazione ad un album che sarà fuori, o è già fuori da poco? “Rapstar” è già fuori, “Rapstar” che racconta un po’ di desideri non corrisposti da parte della tua carriera, che poi è sempre relativo. Ma allora l’idea era quella di fare sempre un pezzo che raccontasse, che fosse un banger conscious (se ancora queste definizioni hanno senso), ed era un po’ l’obiettivo quello di raccontare quello che è stato il mio percorso. Ma anche come oggi uno che fa la Rapstar si può sentire, visto che oggi è tutto interconnesso, diventare personaggio. Un singolo dopo l’altro, tutti partono che magari sono anche fortissimi a fare rap fatto bene. Poi però, per forza di cose, il compromesso è che lo devi fare. E quindi ho provato a immaginarmi come uno che è costretto a fare delle robe, che alla fine è giusto fare perché per stare in quel mondo ha senso farle. Magari poi c’è l’effetto collaterale, che ti senti un po’ sfruttato. Anche parlo dell’entourage che ti sta intorno. Quindi ho cercato di ragionare in entrambi i sensi.
Sul discorso dei rimpianti, in realtà se avessi dovuto averli sarebbero usciti molto prima. In realtà è una considerazione a posteriori. E sta piacendo, quindi diciamo che la chiave è stata azzeccata.
Disco tutto prodotto da Il Papi, sì, tranne una produzione che la fa Robby Budget, che è un ragazzo che esce con noi però ha quattro mani con Il Papi. Quindi ci stava anche un featuring alle macchine. Perché alla fine col Papi lavoriamo dal 2018, dopo “Gemelli”, per “Leftovers”. Però un disco intero io con lui non l’avevamo mai fatto. Siccome ci troviamo molto bene perché riesce a completarmi molto in studio, nel senso che fa un po’ di direzione artistica, che è la roba che magari a me un po’ manca perché potrei farla a un altro. Ma su me stesso sono un po’ troppo fissato. E quindi il binomio ha funzionato, perché aveva detto: “Vabbè, a questo punto facciamo un disco”. Quindi sono questi dieci pezzi, poi li sentirete. “Lettere mai scritte”
“Lettere mai scritte” è un altro titolo abbastanza reminiscente. Che cos’è che non l’avevi mai scritto dopo anni di rap?
Cose così tanto personali e così tanto vissute, legate a cose che mi sono successe negli ultimi anni. Ho sempre scritto cose di contenuto dove chiunque ci si può identificare, e è sempre stata una cosa che è piaciuta. Però mi sono sempre un po’ immedesimato in quelle che potevano essere delle situazioni che avevo riportato. Poi invece parlo molto più di me, quindi erano cose che dovevo dire, volevo dire, ma non c’era mai stata l’occasione.
E quindi sono un po’ più intimi come pezzi. Ho iniziato a lavorare con Il Papi, quindi di avere una certa sicurezza dal lato produzioni. Sono riuscito anche a tirar fuori un po’ più di cose insolite da quello che normalmente ho fatto, non tanto come testi ma anche in qualche ritornello o in qualche contenuto un po’ troppo intimo, che magari gli anni fa non avrei mai avuto voglia di raccontare. È arrivato il momento di farlo.
Sì, sì, anche perché, voglio dire, questo è l’undicesimo. Quindi dopo un po’, cioè, la mia ricetta è sempre quella: cerco di aggiornarmi guardando a quelle che sono le sonorità che vanno di moda adesso, ma sempre quella parte di sonorità che vanno di moda che riesco a rimettermi sopra. E quindi dopo un po’ bisogna osare. Quindi è sempre un disco, come dicono molti, “all’Ape”, però con sfumature diverse.
Anche “Rapstar” stessa comunque ha una produzione un po’ particolare, una roba dove quando me l’ha fatta sentire Il Papi nemmeno io pensavo di farci il pezzo. Invece in 20 minuti è uscito. Quindi osare un pochino serve anche per uscire dalla zona di comfort.
Sì, altrimenti non fai 11 dischi. Se vuoi fare sempre lo stesso disco… No, puoi fare sempre lo stesso disco, c’è gente che ha una carriera che ha funzionato così. Ma siccome la mia non è propriamente una carriera, perché è solo passione, posso fare un disco, star fermo 4 anni. Però poi quando lo rifaccio deve avere una connotazione ben precisa. Adesso che ho finito questo, ho già un’idea per farne un altro completamente diverso. Però, voglio dire, è giusto osare perché almeno rimane la parte di divertimento per te e per chi ascolta.
Che cos’è stato lo stimolo, al di là del racconto e dell’introspezione, che ti ha spinto a dire “Facciamo un disco dopo 4 anni di stop”? Allora, avevo detto che era l’ultimo disco, il decimo, col vinile. Ma perché, cioè, per un tema proprio di come oggi la musica viene percepita… La lunga distanza, forse anche io mi stanco un po’. Un disco lungo non faccio fatica, soprattutto un disco rap. Magari un disco rock di un altro genere, 15-20 pezzi di ascolto… E poi cazzo, uno magari fa un disco e ci mette un anno, perché tra una roba e l’altra se non fai quello di lavoro ci metti almeno un anno. E poi non dura un cazzo. E quindi ho detto, lavoriamo con dei singoli. Però per come piace a me il rap, mi sono accorto che lavorare con i singoli sono episodi troppo piccoli per raccontarsi. E quindi ho detto, fanculo, facciamo un altro disco. E questa è diciamo la sintesi. L’idea adesso è di fare progetti di questo tipo: non più di 10 pezzi, non più di mezz’ora, che è un compromesso tra il tempo che ci dedichi e quanto poi dura.
E poi uno dei motivi per cui ho deciso di rimettermi è che la gente lo voleva. Non avevo un pubblico, però i miei fedeli me lo chiedevano. E quindi a furia di dover dire “no, è l’ultimo disco, farò solo singoli”, a un certo punto ho detto: “Sai che c’è? Facciamo un altro disco”.
Certo, è bello che gli stimoli vengano anche da fuori per fare un’introspezione. Ma in ogni caso anche il pubblico poi ha voglia di sentire qualcosa di tuo. Lei è abituato a una determinata maniera di scrivere, di interpretare i pezzi. Hai un tuo stile, sei riconoscibile, ti chiedono ancora cose. E poi è live anche.
È live?
Dal vivo. Eh, questa è una cosa bella. Io dal vivo mi sto togliendo tantissime soddisfazioni, più adesso che non ai tempi. Perché ai tempi, quando erano usciti i dischi di Vibra, che è il periodo diciamo… I dischi di Vibra sono il motivo per cui oggi, cioè, pur essendo un outsider posso ancora pubblicare roba, grazie a Zeta e grazie a tutta la situazione, e grazie ovviamente a Bassi. Perché poi tutto è partito dalla famosa strofa di “Giorni Matti”.
Certo, la consacrazione. Sono uno dei tanti che è stato battezzato da Bassi nel momento giusto e poi è andato avanti con le sue gambe. E dal vivo, cioè, ho avuto poche occasioni per esprimermi in quel periodo perché c’erano pochi live, almeno ne ho fatti pochi. E adesso che si ha un live da 300 persone, un live da 30, ho molta energia, riesco ancora a farli molto bene, mi diverto un casino da solo. Il Papi in console senza doppie, mono voce.
E quella è la roba più… Lì c’è proprio il concetto di prestazione, ok? E poi di prove, quindi divento maniacale. Provo 20 volte al giorno se devo fare un live e mi interessa che quella parte lì funzioni.
“Per fare live devi far uscire roba, perché sennò non sei notiziabile.” Mi interessano due aspetti, quello innanzitutto della maturità del rapper, perché non è un aspetto scontato. 20 anni fa non l’avremmo mai detto che ci saremmo trovati qua 20 anni dopo in stazione centrale a parlare di un tuo disco nuovo, l’undicesimo. Nessuno poteva prevedere, visto che 20 anni fa vi hanno parlato da dietro.
“Esatto, esatto. Perché la redazione di Groove, il giornale per cui sia io che Sid lavoravamo, era proprio qua dietro. Per cui ci siamo visti per raccontare quello e poi tutti gli altri progetti a seguire. Adesso 20 anni dopo… Maturità dal punto di vista intellettuale, fisiologico e anche come rapper, perché cambia la maniera di fare musica nel tempo.”
Allora adesso la roba bella è che il rap è diventato di moda, sì. Quindi essendo diventato di moda è sdoganato, ok. E quindi il fatto che vadano di moda delle cose che poi magari a chi viene dal nostro periodo non piacciono, però crea più spazio per tutti. Quindi è una cosa positiva.
Cioè la roba bella è che mia figlia ascolta magari i rapper di adesso, ma visto che sono usciti col disco si ascolta anche qualche canzone dei Club Dogo. Certo, mia figlia ha 17 anni, ed è bella questa roba qua. Cioè questo andare a riprendere cose… Cioè chi cazzo mai avrebbe pensato che mia figlia in macchina mi dicesse “Mettimi i Club Dogo”? Chiaro, ok. E questo è… La maturità con cui vivo il rap adesso è questa qua. Cioè che è il genere che ascolta mia figlia con le sue coetanee e che va di moda sugli adolescenti. Quando ho iniziato io nel paesino in provincia, cioè eri l’alieno, eri quello che dicevano “Ma come cazzo si veste questo?”
Adesso è esattamente il contrario. Chi fa rap è quello più popolare, più figo. Anche perché poi tutti adesso hanno preso la piega un po’ gangsta, un po’… Fa figo adesso essere un rapper. Però per me è una cosa normale, è come respirare. Cioè nel senso, è come andare in bicicletta, non ti dimentichi mai di farlo. E quindi nel momento in cui decido che devo fare dei pezzi, devo fare il disco, mi metto a farlo. Mi sento la responsabilità di quello che scrivo, però io questa roba me la sentivo anche a vent’anni, quindi per me non è un problema.
Quello che voglio evitare di fare è di fare quello che torna con l’esperienza old school che però è capace solo di criticare. Quindi su questa roba secondo me bisogna stare molto attenti, perché anche le cose oggi più commerciali qualcosa da insegnare ce l’hanno. Anche la cosa che magari poi dice “Vabbè questa parola è troppo spinta”… Io cerco di ascoltare anche quelle, non è che me le pompo, le ascolto per capirle. Però qualcosa te lo porti a casa.
Quindi io la vivo così: ascolto, sento anche le robe nuove. Però chiaramente poi la cosa che mi va da riascoltare sono le sonorità un pochino più… un pochino più vicine a me. J Cole, per farti capire, una sintesi di un rapper che mi piace molto, che usa suoni moderni però ha un’impostazione abbastanza classica.
[Interruzione per la sveglia]
Dicevamo da una parte la maturità di fare il rap, e quindi che è uno sport approcciabile anche sopra i 40. Direi che è un risultato della scena di 20 anni fa che si approccia al giorno d’oggi. Tanti rapper 40enni bravi, ancora bravi, sempre bravi… Mi viene da dire: non ho mai smesso di esserlo, sempre attuale.
L’altra cosa che invece mi interessa… So che ti alleni tanto, hai un rapporto con il tuo fisico non da 40enne seduto ma da 40enne attivo, diciamo così. E anche questo probabilmente ha a che fare con la tua voglia di esprimerti dal vivo. È una forma di confidenza con la tua capacità di tenere un palco a livello fisico, a livello di fiato, prestazione aerobica.
Alla fine sì, perché io mi alleno da sempre, praticamente da quando ho iniziato a pubblicare dischi. In parallelo ho iniziato anche ad avvicinarmi al mondo della palestra. E sì, il concetto di prestazione ce l’ho soprattutto per i live. Il fiato, quella roba lì a me piace ancora. Poi mi rendo conto che non la colgono tutti, però chi la coglie, la capisce, poi si gasano. Quindi hai detto la parola giusta: il concetto di prestazione è applicato anche al fatto di fare rap dal vivo.
Che cosa ti pompi adesso? Allora adesso sono abbastanza infissa con le robe mezze country. Ok, Jelly Roll…
Certo, Yellow Wolf.
Jelly Roll che adesso ha fatto questa evoluzione, è passato praticamente al country. Gli ultimi dischi sono country, che l’ho scoperto qualche anno fa. Non aveva l’idea delle sonorità che utilizzavo. Un rapper bianco, prova a canticchiare, però comunque faceva roba in New School. Quindi quell’evoluzione lì mi piace, un’evoluzione che non c’entra una minchia con me. Ma è vero…
Sì però no, musicalmente no. Mi incuriosisce il concetto di country.
Sei sempre stato quello che ha sempre vissuto fuori dalla città… Vabbè quello sì, è una provincia, un countryside. Sono due cose diverse ma in qualche maniera hanno un approccio extraurbano.
Extraurbano sì. Però è vero, e anche intimista.
Anche di racconto di una realtà che non è quella…
Beh quello sì, della sfatica. Perché se senti le robe di Jelly Roll è molto personale, cioè parla molto di lui. Intendevo più che altro la parte del cantare, quella ho usato in qualche ritornello. Ma non è proprio cantare, è una reppata un po’ più melodica. Però quella roba lì è figa. E da lì sto provando a esplorare altre robe country, che non mi piacciono tutte perché alcune sono proprio country in vecchia maniera. E altre cose… Vabbè J Cole, mi pompo sempre il caro vecchio QG Rap. Mi sto recuperando tanto gli Outcast, sono in una fase molto di recupero. Però per dire anche Joyner Lucas…
Sì…
Che è forte. E poi un sacco di rapper che escono da Albert. Mi viene in mente… Adesso il problema della musica di adesso è che non comprando i dischi, io faccio fatica a ricordarmi i nomi degli artisti e i titoli.
Ho una playlist con “Entro il mondo”. Ci sono un sacco di rapper minori che fanno, secondo me, robe molto fighe. Tipo il giro sempre della Dreamville, ci sono Lute, Goats che sono molto forti. Però Rison che riescono ad avere un buon compromesso tra le sonorità moderne e le cose un pochino più vecchie, più Golden Age.
Mi ha un po’ stufato, ma non perché non mi piace, mi ha un po’ stufato il giro Griselda che è un po’ standardizzato. Di loro, che ormai non è più neanche Griselda, mi piace Benny.
Certo, è fortissimo perché ogni tanto tira fuori anche delle sonorità diverse. Il disco quello che ha fatto dovrebbe essere “Trust the Sopranos” che ha delle produzioni…
Esatto, che ha delle produzioni di gusto molto anni ’80, comunque dei campioni particolari. Quella roba lì è geniale. Non dicono un cazzo però è fatta bene.
Certo, perché adesso si è un po’ standardizzato quel tipo di rap. Quindi in tanti lo provano a fare così, ma ne esce talmente tanto… Non riesci neanche a stargli dietro, non riesci neanche a stargli dietro.
Poi ce n’è uno fortissimo che ce l’ho qua, te lo faccio vedere. Usiamo lo smartphone per una volta, per qualcosa di non interruttivo. Questo qua, questo è un pazzo secondo me. Te l’ho scoperto perché è uno forte, tipo questo qui Alligatorelli Shotti. È sempre una cosa abbastanza country perché si parla di…
No, no, no. È tipo una griseldata però è Florida, quindi è qualcosa della Florida che lo fa. Per dire un sacco di roba così che tu non sai neanche chi cazzo sono, però te li salvi e te li ascolti.
Ci sta. Vabbè, Logic…
Chiaro. Vabbè, questo qua, dai. Ti fai… Poi questa è la mia playlist di Vasco.
Beh, questa non può mancare. Io mi sono sempre molto ispirato Big Hit, il padre di Hit Boy.
Sì, questo è Jelly Roll, Jelly Lucas, questo qua… Questo, Paul Walker. Non me lo sono mai cagato perché ai tempi aveva i denti… Dicevo, chi è ‘sto coglione? Invece è fortissimo, questo disco che è una bomba.
E poi qua mi sono scaricato tutte le mie robe, così quando me le chiedono le faccio vedere. E questa… Questa qua è la playlist che chiunque dovrebbe avere. Per me una playlist è i dischi più belli. Quindi c’è questo qua Outkast, Neffa, che non può mancare, Mobb Deep.
Ok, questa dovremmo farla diventare una rubrica fissa. Open New York, Tupac anche. Beh, non manca nulla, queste robe qua.
Io ero interessato perché credo che anche per te il rap sia sempre una ricerca, sia di scrittura che di contenuto, che di allure in generale. Il musicale proprio al 100%. E quindi tu non puoi smettere di studiare se lo vuoi fare, altrimenti faresti veramente 11 dischi tutti uguali, perché sei tu e finito, basta.
Invece è un cerchio aperto da cui si impara sempre da colpire. E tanto a roba vecchia che ai tempi magari non l’avevo capito bene, a volte ti ispira molto più quella di una roba nuova. Perché comunque ci sono tante cose che ai tempi sono uscite e poi le ho vissute in maniera diversa. Lil Wayne… Ai tempi già solo guardavi le copertine, dicevi “Ma cos’è sta roba qua?”
E quindi magari ci si fermava lì perché dicevi “Vabbè, East Coast”. Poi cazzo, continua a non piacermi tanto, però se ti ascolti i testi è una qualità della Madonna. Non è la mia roba, e quindi la ricerca è anche quello. Non per forza una cosa poi ti deve piacere, però ti prendi un pezzo di quella roba lì e provi a farlo tuo.
Io bene o male faccio così e sto provando a pescare anche ad altri generi, perché soprattutto in sottofondo, guida o in momenti normali, magari a volte sono più anche le robe rock classico che ti aprono un po’ di più. Il rap è… Sono parte del background classico e ci sta bene. E anche lì con gli anni mi sono aperto un po’, perché ai tempi “No figo, un disco rock, figura che”, non è da B-Boy. Invece poi non è così, non è così. Quindi dovete ascoltare anche le robe di altri generi, perché poi ve ne pentirete.
E ascoltate anche il disco di Ape!
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Mi iscriverò anche io perché non sono ancora iscritto. Lo metto e mi iscriverò anche alla mailing list. Anche se io posso dire di avere una pila così di AL, quindi io gli articoli vecchi li ho originali.
Perfetto, grazie Ape.
Ci vediamo alla prossima.