Di Claudio Sid Brignole
Il libro “Kill Tha G Word”, curato da Maurizio D’Apollo racconta la storia di Phase 2 in Italia tra il 1984 e il 2012. Questo volume rappresenta un importante contributo alla documentazione della storia dell’Hip Hop nel nostro paese, evidenziando il ruolo cruciale che Phase 2 ha avuto nello sviluppo della scena locale. Abbiamo posto alcune domande a Maurizio per approfondire la genesi del libro e la sua lunga gestazione.
Perché fare un libro sulla permanenza di Phase in Italia?
Quando ho scoperto il writing nel ’95, il movimento stava vivendo un periodo di grande esposizione mediatica: diari, zaini, quaderni, le scritte erano ovunque, non solo in città. Quello stesso anno, Miki Degni e suo fratello, due fotografi che seguivano la scena da circa dieci anni, organizzarono al Museo della Scienza e della Tecnica un evento chiamato ‘Arte Spray’, in cui tra gli altri dipinse anche Phase. Era qualcosa di completamente diverso da tutto ciò che avevo visto fino a quel momento, indecifrabile, ed era proprio questo a incuriosirmi di più da ragazzino: fare qualcosa che solo pochi capivano.
Quando ho saputo della sua morte, sono tornato con la mente a quei giorni e ho pensato che anche la sua storia italiana rischiava di rimanere qualcosa di indecifrabile, per pochi. Così ho deciso di mettere nero su bianco le tappe del suo percorso nel nostro paese, per non disperderne l’eredità. Non ho mai pensato di realizzare una sua monografia: KTGW vuole essere un omaggio.
Qual è stato il processo di ricerca e raccolta del materiale per questo libro? Quanto tempo ha richiesto?
Ho sempre creduto, sin dalle prime fasi di questo progetto, che il libro dovesse svilupparsi in modo cronologico, partendo dal 1984, quando Phase venne per la prima volta a dipingere in Italia, fino alla sua ultima opera del 2012 a Bologna. I racconti che si intrecciano nel libro sono frutto delle connessioni tra le persone stesse: ogni intervista mi permetteva di aggiungere un tassello e mi conduceva a quella successiva. Ho fatto un po’ il pendolare tra Milano, Bologna e Rimini per riuscire a completare la maggior parte delle interviste. Quando ho iniziato ad avere del materiale sufficiente, mi sono dedicato alla progettazione grafica e all’impaginazione, e in circa due anni il libro era concluso. È stato un bel viaggio!
Che impatto ha avuto Phase sulla scena Hip Hop e writing italiana durante i suoi soggiorni nel nostro paese?
Non credo ci sia una risposta univoca a questa domanda, o almeno io non so darla. Quello che ho capito, mettendo insieme tutti i pezzi, è che Phase aveva un’incredibile capacità di capire dove le cose “accadevano”. Se si guarda da una certa distanza la storia dell’Hip Hop italiano dal 1984 al 2000, o almeno i momenti che hanno lasciato un segno, lui era sempre lì con chi era in prima linea: negli anni Ottanta con la prima generazione di b-boy del Muretto, nei Novanta con le crew di writing CKC e 16K a Milano e SPA a Bologna, sui dischi di Neffa e Chief prima, e di Gente Guasta e La Finnezza Click poi. Molte di queste persone sono state influenzate dalle sue parole, ne sono inevitabilmente rimaste coinvolte e le hanno fatte proprie. Kill tha G Word ne è l’esempio perfetto: per chi si è avvicinato alla cultura Hip Hop negli anni Novanta, proprio grazie a queste persone il fatto che “graffiti” non fosse un termine corretto per definire il writing era una cosa risaputa.
Perché Phase era così contrario all’uso del termine “graffiti”? Qual era la sua visione alternativa?
La questione è più profonda di quanto possa sembrarci oggi, furono i media che diedero quel nome a quanto stava accadendo a NY nei primi anni Settanta, non arrivava dai protagonisti del movimento. In un primo momento con l’arrivo delle gallerie d’arte, in molti hanno accettato quel termine per entrare in quel mondo dove la loro arte aveva un riscontro economico. E così quella parola si è imposta. In una sua intervista credo spieghi esattamente il punto:
Non si tratta di odiare il termine. È molto più di questo. Si tratta di appropriazione. Essere ‘corretti’ secondo i nostri criteri e non secondo le linee guida di qualche pseudo-autorità. Pretendiamo di essere hardcore, ma non abbiamo il coraggio di liberarci dalle sciocchezze che ci vengono imposte. ‘Graffiti’ non è come lo chiamavamo noi. Non esisteva una parola simile nel nostro vocabolario. Devo tornare a questioni come gli Indiani e i Neri. Cos’è un Nero, in realtà? Una riappropriazione di chi aveva già dei titoli molto prima che qualcuno meno informato o meno interessato decidesse di chiamarli così.
Quali sono stati i momenti o gli eventi più significativi della presenza di Phase in Italia che emergono dal libro?
Di base risponderei tutti! Ha partecipato a convention che sono diventate leggendarie, così come le sue copertine per Tribe Magazine o gli articoli su Aelle. Anche i featuring che citavo prima sono ancora potentissimi oggi.
Come è cambiata la scena italiana del writing e dell’Hip Hop dal primo arrivo di Phase nel 1984 fino alla sua ultima apparizione nel 2012?
La scena è in continua evoluzione, ed è una caratteristica intrinseca dell’Hip Hop. Phase ha seguito l’evoluzione del movimento in Italia fin dal primo giorno, a partire dagli anni Ottanta, quando il breaking fu il punto di partenza per molti, che poi sono diventati writer, rapper o DJ. A volte ho immaginato che per lui fosse come un déjà-vu, essere in un paese dove tutto stava iniziando, senza le storture che aveva già visto accadere a New York.
Quali sono state le principali sfide nel ricostruire cronologicamente il percorso italiano di Phase?
Le foto! È stato un inferno recuperare qualsiasi immagine delle murate fatte da Phase in Italia. All’epoca non c’erano ancora le macchine digitali, sviluppare i rullini costava, e davvero in pochi hanno archiviato materiale di quegli anni. Rusty, una delle voci presenti nel libro, aveva però un archivio davvero ben curato, ed è stato fondamentale per ritrovare diverse murate. La sfida più grande è stata ricomporre la murata che Phase dipinse con la SPA al Ponte Stalingrado. Avevo solo dei dettagli e foto incomplete, ma continuando a cercare sono riuscito a ricomporla. Credo di aver utilizzato una settantina di foto in totale, una follia.
Che eredità ha lasciato Phase alla cultura Hip Hop e writing in Italia secondo te?
Risponderò con una frase tratta dal contributo di Sky 4, writer milanese a cui Phase dedicò uno speciale sull’ultimo numero di IGTimes:
“Credo che, inconsapevolmente, abbia lasciato il suo tocco alla scena, non tanto a livello stilistico, quanto a livello di anima e attitudine. La cultura dietro il writing per lui era davvero importante. Lo spirito Hip Hop era presente in tutto ciò che faceva: dal writing al rap, al breaking, fino al modo di pensare e vivere la vita stessa.”
C’è qualche aneddoto o storia inedita su Phase in Italia che hai scoperto durante la realizzazione del libro e che vorresti condividere?
Ce ne sono diversi, ma preferisco lasciare che chi leggerà il libro li scopra da sé. Tuttavia, ho un aneddoto particolare che riguarda proprio Aelle Magazine. Su un vecchio numero c’era un dettaglio di un suo pezzo su cui aveva disegnato a pennarello una lettera. Dopo mille ricerche, ho capito che quel pezzo era stato fatto a Roma, durante la Convention Quartieri nel 1995. Tempo dopo stavo cercando delle foto migliori di una jam a Messina del 2000, e riesco a contattare un ragazzo che le aveva. Parlando, mi racconta di aver conosciuto Phase molti anni prima, proprio durante quella jam a Roma. Era rimasto a guardarlo dipingere per tutto il tempo e, a un certo punto, Phase, per spiegargli come scrivere le lettere del suo nome, ha disegnato con un pennarello una “E” sul suo pezzo. Non riuscivo a crederci, è stato incredibile scoprire per caso quel piccolo frammento di storia.
Come pensi che questo libro possa contribuire alla comprensione e documentazione della storia dell’Hip Hop e del writing in Italia?
In realtà non ho mai avuto un’intenzione così ambiziosa; l’idea di base era “semplicemente” di non far perdere di vista la questione: nessuno smetterà di chiamarli graffiti, ma viviamo in un’epoca in cui tutti rivendicano il proprio nome e la propria identità. Credo sia giusto, almeno, conoscere le origini del nome del movimento di cui si fa parte. Tuttavia, raccontare questa storia significa inevitabilmente attraversare tre decadi di storia dell’Hip Hop italiano, e in questo percorso si scopre anche l’evoluzione che il movimento ha avuto nel nostro paese. In questo senso, sì, il libro aggiunge un tassello alla documentazione della nostra storia, che è ovviamente molto più profonda e complessa rispetto a quanto viene mostrato nel volume.
Quali sono stati i contributi più preziosi che hai ricevuto dai protagonisti della scena italiana per la realizzazione di questo libro?
I ricordi e le parole di coloro che hanno contribuito hanno un valore inestimabile. Non bisogna dimenticare che ero un perfetto sconosciuto che chiedeva loro di parlare di un amico scomparso, non era assolutamente facile né scontato. Ogni sketch, ogni lettera scambiata con Phase racconta anche un pezzo della loro storia. Simona “Rose” di Rimini mi ha permesso di acquisire alcune pagine di un diario di Phase, con testi densissimi sullo style writing e le origini del movimento: pagine davvero preziose. Questo libro non sarebbe stato possibile senza di loro. E rivedo il senso di una frase scritta da Phase in una lettera a Kayone, in merito al restauro del pezzo che dipinse a Quattordio, dove la storia di Kill Tha G Word inizia: “Che ve ne rendiate conto o meno, siamo una cosa sola. Connessi e rispettati.”