DINASTIA DEI COSANG: UN RITORNO MATURO CHE SFIDA LA NOSTALGIA

Cosang Recensione

Di Damir Ivic

È curioso che qualcuno sia rimasto deluso da “Dinastia”, il ritorno della ditta Cosang – Luchè e Ntò di nuovo uniti, qualche anno fa sembrava davvero impossibile – sulle scene, con del materiale nuovo. Curioso, sì. Perché la domanda che verrebbe da fare è: ma, cosa vi aspettavate esattamente? Davvero: cosa?

Se ci si aspettava un nuovo “Chi more pe’ mme” o una rinverdita “Vita bona”, beh, facciamo rispondere la matematica per noi: da questi album sono passati rispettivamente diciannove e quindici anni. Diciannove, e quindici. Voi che leggete: che persone eravate, vent’anni fa? Che gusti avevate? Che ascolti avevate? Come era fatta la vostra quotidianità? Quali erano le vostre priorità?​

…ecco. Crediamo che questo sia un esercizio molto utile per capire veramente e, ancora di più, per apprezzare in senso lato e compiuto questo album. Un lavoro che è, prima di tutto, onesto. Sarà per minimizzare gli sforzi, sarà perché gli è venuto così, sarà perché sono troppo adulti e maturi per giocare a fare i ventenni fuori tempo massimo, sarà quel che sarà, ma sta di fatto Luchè e Ntò non hanno lavorato di cerone per fingersi ancora i malamente di una volta intrisi di cazzimma e di sguaiato, ruvido senso d’urgenza. No. Coerentemente con lo scorrere del tempo, e anche coerentemente col fatto che il rap in Italia ormai è una musica non più carbonara ma anzi ben conficcata nelle numeriche mainstream (anche per merito loro, in primis di Luché), “Dinastia” è un disco serenamente adulto e pacificato, nel suo essere urban e stradaiolo.

Il flow dei due fa sempre la sua porca figura (del resto, con la gente che c’è stata in giro negli ultimi anni è abbastanza dura non fare bella figura,no?, se arrivi da una scuola tosta come quella dei primi 2000). Gli argomenti e i ragionamenti sono più introspettivi, articolati, riflessivi, perdendo senz’altro quell’urticante capacità di fotografare con le parole gli spigoli, le cattiverie e le ombre ma guadagnando comunque in spessore. Chiaro: in questo modo è tutto meno incisivo, tutto meno cinematografico, tutto più da salotto o da live dove ti interessa più riprendere bene col telefonino la gente che canta che lanciarti in un mosh pit con degli (s)conosciuti. Ma questa è la vita.

È molto peggio essere dei signor Burns vestiti da skater, pensando di poter così ingannare qualcuno e lucrare al massimissimo sull’effetto-nostalgia della gente. Chi voleva i Cosang del 2005 o del 2009, o ne voleva almeno un credibile simulacro rifatti quasi in scala 1:1, era ed è più affezionato ai proprio ricordi andati che alla musica ed all’identità etico-artistica dei Cosang stessi. “Dinastia” è un disco senza picchi, senza meraviglie, senza abrasioni che resteranno nella storia; ma è confezionato molto bene. Le collaborazioni funzionano tutte (menzione d’onore per i Dogo che sembrano Marracash e Marracash che sembra i Dogo, così come per l’elegante traccia con Liberato che poteva essere un disastro dolciastro invece è stile ed eleganza), la delivery dei due titolari della ditta riuniti è appunto inappuntabile ed ammirabile (…ancora più “in controllo” e consapevole rispetto ai lavori che li hanno rivelati al mondo come Cosang), le idee musicali ci sono (alcune ottime, come “Non è mai fernut”: che stile) e non sono in generale mai sbrigative o dozzinali.​

Che volere di più? Alla fine, è lo stesso ritorno che vi hanno e ci hanno dato i Dogo: godibile, appropriato, maturo. L’unica sfiga dei Cosang è che nel frattempo è arrivato Geolier a prendersi il ruolo di portabandiera, ruolo che a Milano nessuno ha conteso a Gué, Jake e Joe (Sfera troppo occupato a far soldi, Emis Killa troppo per tutti, Ernia troppo buono, Rkomi si è autoeliminato preferendo essere un Vasco 2.0 più che un rapper). Qui sta la differenza. Ma quello, onestamente, non è colpa di nessuno. E i Cosang possono sempre dire, a buon diritto, che nella “Dinastia” loro vengono prima. Quando era ben più difficile immaginare che una dinastia popolare e remunerativa potesse esserci davvero.

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