SGAMO: ONE NATION UNDER A GROOVE

DJ SGAMO
Foto @ Giulia Feleppa

Da Bari ai dancefloor asiatici, un viaggio tra culture che si incrociano.

di Luca Mich aka @bettergosoul

A volte capita che i flussi energetici si formino in modi imprevedibili e che poi, semplicemente, si incrocino. “Non incrociate i flussi” diceva Peter Venkman in Ghostbusters uno, e il perché era piuttosto ovvio: se ne poteva scatenare un’onda quantica ingestibile e di difficile comprensione, uno spazio altro nel quale ectoplasmi, umani in carne ed ossa, proiezioni sensoriali e tutto ciò che era in ballo in quel momento di scoperta, a inizio anni ’90, quando di codici ce n’erano ancora pochi e le giustapposizioni erano considerate, giustamente, per ciò che erano: sperimentazioni.

Per alcuni erano considerati incroci proibiti. Da allora qualche flusso si è incrociato per davvero nella scena musicale, nella moda, nei crossover urbani, nelle subculture in generale, e i contorni delle contaminazioni sono stati ridefiniti con cura, a volte perdendone la spontaneità, altre ricostruendola artificialmente.

Perché si tratta di incroci generativi e potenti quando genuini, tanto da attrarre l’attenzione anche di noi di Aelle, canale che segue e contribuisce al racconto e alla diffusione della cultura Hip Hop fin dai primi anni ’90. Per una serie di circostanze ed energie che confluiscono (appunto), ci siamo trovati ad incrociare le strade proprio di chi da quella stessa cultura si è, a stretti termini, allontanato sì, ma per allargarne i confini: per includerne vibes, spirito rivoluzionario, tendenza all’inclusività, innovazione e, mettiamoci pure, anche estetica, con tutto ciò che ne deriva in termini di hype-surfing, di reference fashioniste e pure qualche minaccia di superficialità che flirta con il cavalcare le formule dei trend.

E così Aelle oggi incontra Sgamo, DJ (e scopriremo molto di più) di origini baresi, oggi di stanza a Milano, ma a casa ovunque nel mondo ci siano culture da incrociare, dancefloor da contaminare, consolle da infuocare. Sì, perché Alessandro Nuzzo è un’anima in piena ed ha quell’attitudine lì, quella Hip Hop, che gli consente di comporre set eclettici in cui finiscono generi che, per quanto lontani, si basano sempre su due cose: basso e batteria.

Drum & Bass, (post) Dubstep, Footwork, Brazilian, Grime, Afrobeat, Hip Hop, re-edit, trap: tutto confluisce in set indiavolati che funzionano sia per i brand launch party dei grossi marchi nelle metropoli, sia per i clubber più raffinati, quelli che amano le contaminazioni di genere, musicali o umane che siano.

I flussi tra Aelle e Alessandro si sono incrociati a New York, sì, nelle strade della città di quel Peter Venkman, grazie al contatto offerto da Giulia Feleppa, fotografa barese ora nella Grande Mela, di cui avete già letto se seguite il nostro magazine. Lo abbiamo poi raggiunto al telefono e via mail per una chiacchierata zeppa di balzi quantici, riferimenti a culture altre che diventano le nostre, di spirito innovativo e contaminante originario della cultura Hip Hop e di confronti tra culture urbane del mondo, dall’Empire State alle Filippine, dal Vietnam al Giappone, anche se tutto è partito da Bari.

“Ho scoperto il rap quando era ben lontano dall’essere quello che è oggi, e me ne sono innamorato all’istante. Da una parte, era un’evasione dalla realtà impegnativa del mio quartiere, dall’altra mi offriva un modo per parlare di quella stessa realtà. Nonostante le difficoltà di allora, il rap mi permetteva di farmi capire dai miei coetanei e mi dava una voce con quelli più grandi. Questo contrasto è forse la prima base su cui si poggia il rapporto con l’arte e la creatività. Ogni progetto che inizio oggi è figlio di quelle emozioni e convinzioni iniziali, come un compagno di viaggio che cresce con me, mostrandomi sempre nuove strade da esplorare. Ho attraversato momenti oscuri, ma ne sono uscito sempre con stimoli nuovi, musicali ed etici. Il mio primo viaggio in Malesia, ad esempio, dove per la prima volta sono rimasto affascinato dalla convivenza tra comunità religiose ed etniche diverse, unite in un’influenza reciproca pur conservando la propria identità. Questa esperienza mi ha arricchito profondamente, tant’è che ormai non si tratta più solo di musica, ma di un’energia che cerco ogni giorno e che mi è ormai essenziale.”

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C’è quell’essenza dell’Hip Hop dei primordi nel proporre musica nuova e mescolata nei dancefloor internazionali: beats che si basano sul groove e sulla bass culture, intrecciando culture, scene musicali e suoni che, impastati insieme, arrivano a platee anche molto importanti. In Italia non abbiamo ancora avuto l’opportunità di mescolarci in modo autentico con etnie e culture integrate dalla migrazione; dall’altro, chi ha la possibilità di emergere nella scena musicale sin da giovane spesso proviene da contesti che non l’hanno costretto a costruirsi da zero. Questo crea, in un certo senso, una sorta di campanilismo che spinge l’industria locale verso una direzione unica. C’è una corsa a salire sullo stesso treno, come se fosse l’unica via per arrivare al successo, e questo distrae dall’osservare ciò che succede di fresco e innovativo nella scena musicale internazionale.

“Ogni volta che emerge un nuovo suono a livello globale, quello che puoi fare è passare ore su Internet cercando di saperne di più. La ricerca non è mai solo un atto di ascolto, ma un modo per connettersi con ciò che è lontano e sconosciuto. Personalmente, ho passato anni a fare ricerca dalla mia cameretta, ascoltando e scoprendo nuovi mondi musicali. In seguito, quando ho iniziato a potermelo permettere, ho cominciato a fare piccoli viaggi a Londra per ascoltare i miei artisti preferiti nei club e, più recentemente, mi sono avventurato in viaggi più lunghi, alla ricerca di un contatto più profondo con le culture locali.”

Che poi l’Hip Hop nasce dall’urgenza: “La musica è sempre stata più di una passione. Un’urgenza di esprimermi che non avrei mai immaginato potesse trasformarsi in una carriera. Più tempo passavo ad ascoltare musica nuova e ad immergermi nei suoni, più riuscivo a fuggire da una realtà che sentivo stretta. Così è venuto naturale combinare suoni che mi sembravano familiari, prima che diventassero una tendenza. I tempi erano diversi, i social erano appena agli inizi, quindi è difficile paragonare la mia versione della storia a quella che ha vissuto chi mi ha visto crescere. Ma giusto un paio di mesi fa, ho avuto l’opportunità di fare una festa a Bari con i miei amici di sempre. E il risultato è stato che tantissime persone che venivano alle nostre feste quasi 15 anni fa sono tornate. I feedback sono stati chiari: siamo stati tra i primi a fare certe cose e questo va oltre ogni piccola rivalità locale. Sicuramente a Milano avevano le grafiche belle e gli ospiti di un certo tipo, ma non ho problemi ad affermare che anche anni dopo, con i vari gruppi con cui ho lavorato in giro per l’Italia come Often, Hellheaven11, 095Hotline, Touch The Wood (e sicuramente sto dimenticando qualcuno), abbiamo fatto partire un movimento che si è diffuso ovunque, e se la musica che abbiamo suonato per anni oggi è conosciuta, un po’ di merito va anche a noi.”

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Foto @ Giulia Feleppa

Che poi è questo il vero ruolo del DJ, quello che era al centro della cultura Hip Hop, quello che su ogni dancefloor dagli anni ’70 in poi ha sempre avuto il ruolo di proporre, intercettare, far divertire attraverso musica nuova, non per forza a stretti termini, ma nuova per l’audience, fossero pezzi attuali o usciti anni prima. E in un’epoca zeppa di musica di facile accesso, è un dato di fatto che i DJ siano comunque molto richiesti, come se fossero chiamati a fare ordine nello sconfinato universo musicale.

D’altra parte, cambia anche il modo di ricercare la musica da proporre: “Ti dirò, oggi il modo di fruire le informazioni è cambiato radicalmente. Immagina di finire per caso sul canale YouTube di una piattaforma che registra party a casa, solo perché l’algoritmo ha deciso che potrebbe piacerti. Ti ritrovi a cercare una Track ID nei commenti, fai una ricerca, trovi il nome di un artista, lo segui su Instagram e ti accorgi che è connesso con qualcuno che conosci bene. La cosa incredibile è che in questo gioco, un semplice click ti porta a entrare in una rete globale che cresce e si trasforma ogni secondo. Inizia con una nuova traccia che ti piace, la suoni, e nel giro di poco entri in contatto con l’artista, scambi inediti, scopri nuove collaborazioni. Non ho un management che mi pitcha nei grandi festival, ma quello che ho è un accesso diretto a una scena globale che è più connessa che mai. Le distanze si accorciano, le barriere cadono, e quella gente che un tempo guardavo da lontano, oggi è a un messaggio di distanza o magari sullo stesso palco con me un’ora prima o un’ora dopo. Lì fuori c’è un esercito di nuovi producer pronti a fare remix appena una tendenza esplode, consumando ogni trend in un batter d’occhio. È una corsa veloce, ma entusiasmante.”

È facile rendersene conto nei club in Italia, figuriamoci in città come New York dove a confrontarsi ci sono le leggende e i newcomer: “Nel mio ultimo show a New York quest’estate, ho vissuto qualcosa di inimmaginabile. Sono arrivato nel Bronx, un luogo che non è solo la culla di leggende che hanno plasmato la musica che mi ha ispirato, ma è anche il cuore pulsante di una cultura che ha rivoluzionato il mondo per milioni di persone. Certo, non ho mai dubitato delle mie capacità, ma sono comunque arrivato lì con la testa bassa, sentendo il peso di quella storia. Essere accolto, capito e apprezzato dalla community mi ha dato una forza che non posso spiegare. In quel momento, ho capito che stavo facendo la cosa giusta.”

E mentre chiacchieriamo, parliamo di New York e in sottofondo scorre la playlist Milano di Sgamo: ci sono le note di ‘Your Daddy Loves You’ di Gil Scott-Heron, poeta del Tennessee trasferitosi a New York giovanissimo, per poi diventare in qualche modo il padre del rap oltre che un musicista amatissimo da chi conosce la black culture.

“Che lo si voglia o no, la musica più potente e rivoluzionaria del mondo è di colore. E non me ne vogliano Fred Again, la sua famiglia multi-milionaria e i suoi compagni di merende che sfornano hit planetarie, ma dagli anni ’70 a oggi siamo stati testimoni di capolavori che dobbiamo a figli, nipoti e pronipoti degli immigrati afroamericani. La storia ci mostra le atrocità commesse dai bianchi al potere, che giocavano a Risiko con le vite di centinaia di migliaia di esseri umani per i loro interessi. E così, per esempio, Fabolous, che dovrebbe rappresentare il Brooklyn rap autentico, se vai ad approfondire la sua storia è dominicano! A volte parlo con miei colleghi che non si sono mai chiesti chi c’era nelle isole del Centro America. La storia ci viene in soccorso, e sì, è qui che l’uomo bianco ha portato l’uomo nero. E da quella terra, gli africani hanno attraversato l’oceano fino agli Stati Uniti. E se pensi che sia una banalità, ti dirò che se nel 2024 sono gli stessi neri a sognare un’Africa socialista, non mi fa paura dire che Kanye, Gil Scott-Heron e Fabolous, in qualche modo, sono imparentati.”

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Foto @ Giulia Feleppa

Nella musica afro-americana esce forte quel senso di community, di unità di cui hanno parlato grandi nomi del passato, su cui sono stati fondati interi movimenti… “Sai, la cosa che mi ha fatto innamorare follemente dell’Hip Hop, dopo avermi inizialmente colpito con il sound e l’estetica, era quel senso di comunità piccola, stretta, fortemente legata ai valori di aggregazione e inclusione. In Italia, non avendo ancora un riconoscimento commerciale, permetteva a una minoranza che lo viveva un vero e proprio spazio di espressione autentica. Passare le settimane in ballo, tra treni e autobus per raggiungere le jam e i raduni, significava sudarsi ogni possibilità per avere l’opportunità di creare legami e condividere esperienze, strumenti e conoscenze con gli altri. Per questo oggi, anche se sono cambiati i mezzi e le possibilità, sono scappato dall’ambiente Hip Hop e ho ritrovato la mia casa in questa micro scena internazionale, in cui ritrovo gli stessi valori. Che si chiami Global Dance o Future Beats, per me l’importante è che dietro ogni intuizione creativa ci sia ancora quel senso di purezza e creatività. Forse per questo faccio ancora fatica a vendere il mio culo su TikTok e simili. La scena di cui faccio parte non si limita alla musica, ma diventa una rete che si espande in tutto il mondo, un sostegno culturale in cui ogni individuo si esprime grazie al proprio talento e stile, contribuendo a rafforzare la comunità stessa. In un certo senso, anche se sono cambiati i suoni, questo per me è sempre Hip Hop.”

One nation under a groove, siamo sempre lì all’espressione coniata, o quantomeno cantata, da George Clinton. Ad accomunare chi vive certi tipi di culture urbane non è certo solo la musica ma, in molti casi, anche stili di vita e contesti non sempre facili. Lo sa chi è cresciuto nelle case popolari di Bari, le stesse in cui oggi vivono migliaia di ragazzi di seconda generazione.
“Mia madre mi ha cresciuto in un condominio 350 metri fuori dal blocco delle case popolari di Bari, in uno di quei condomini-dormitorio costruiti negli anni ’80. Per questo, indubbiamente porto con me tutte le storie e i suoni del quartiere, che sono una parte incancellabile di me, ma seppure negli anni mi sia dovuto mettere in gioco con diverse facce toste, indubbiamente c’è chi se l’era passata anche peggio a 500 metri dal mio balcone. Le dinamiche di integrazione e resilienza che vedo oggi mi ricordano quelle vissute dalla mia generazione. Personalmente, ho vissuto e continuo a convivere con il classismo dell’italiano medio, soprattutto quando si tratta di proporre un progetto a certe realtà filo-inclusive milanesi, dove però alla base, se non sono rispettati certi canoni estetici, puoi avere anche un messaggio valido, ma farai molta fatica a farti aprire le porte dalle persone giuste. Di conseguenza, questo è lo spirito che porto nella produzione delle club night che organizzo con wegoing.sound e, quando posso, che sviluppo nelle attività per far esprimere i giovani: uno spazio inclusivo dove ciascuno può riscoprire la propria voce e dove ogni cultura è vista come un arricchimento, mai un ostacolo. Per questo, come ti anticipavo, cerco di dare sempre più ai miei set una complessità politica, dove i ritmi e i suoni che propongo non sono solo musica, ma pezzi di identità lontane che trovano il loro valore anche grazie alla mia condivisione. È come se, ogni volta, stessi portando sul palco non solo me stesso, ma anche tutte quelle storie di migrazione e adattamento che abitano i quartieri e che trovano la propria casa in queste serate.”

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Un approccio che arriva a contaminare sia i grandi palchi dei festival europei sia gli stage della scena clubbing asiatica. “Mi piacciono i club piccoli e bui, dove il sound picchia senza bisogno di alzare tutto al massimo e dove ho l’opportunità di condividere l’energia della gente che si riunisce intorno a me per qualche ora. Ho fatto alcune esperienze davvero incredibili, ad esempio al Music Box di Lisbona. Il party nella Bodega del Bronx a New York è stato un altro momento unico. Ci sono anche altre esperienze che rifarei, come quella all’Auro di New Delhi o all’Antro Juan a Mexico City. Alcune, come l’All Club di Shanghai, le avrei volute vivere meglio, ma mi hanno comunque lasciato un segno. E poi c’è stato lo Sziget Festival di Budapest, dove per la prima volta ho avuto l’opportunità di suonare per un pubblico preparato ed eterogeneo che è rimasto lì anche dopo aver finito il mio set, con cui mi sono fermato a parlare, tra le altre cose, anche di politica.”

A livello globale l’Hip Hop è conosciuto per la sua estetica ben definita anche se in continua evoluzione: è nato tutto con i giubbotti zeppi di tag e toppe citazioniste di crew storiche del Bronx e Brooklyn, da Eric B e Rakim con i giacconi di Dapper Dan… Ne parlavamo con il pioniere del writing Skeme che, nel parlarci della scena writing newyorkese anni ’70, disse “it was all about showing off”: il mettere in mostra mischiando accessori, stili e riferimenti è sempre stato parte della cultura Hip Hop fin dagli albori.
“Il fascino dell’estetica Hip Hop mi ha subito catturato, e con esso è arrivato l’amore per i vestiti, come se fossero un linguaggio naturale per esprimere la mia vera essenza senza dover parlare. Eppure, vedo la moda come un settore che spesso si perde nella superficialità, alimentato dal consumismo e da una rigida conformità. Non mi interessa rincorrere i trend o soddisfare le aspettative di una società che impone cosa comprare. Ero street prima che fosse cool, e voglio rimanere tale, evolvendo insieme ai canoni, senza compromessi. Certo, questo approccio mi ha chiuso alcune porte quando è stato il momento di piacere a certi personaggi, ma mi ha anche avvicinato a brand che ho sempre ammirato, con cui ho avuto il privilegio di collaborare in attività di marketing creativo o semplicemente suonando ai loro eventi. Penso al 70° anniversario dei 59Fifty di New Era a Londra, la presentazione della Jordan XI Taxi retro a Milano, la collabo Carhartt x Patta x Awake NY durante la Fashion Week, il DJ set per il lancio della collabo tra Tommy Hilfiger e Timberland, lo show in radio in B2B con Karl Kani, il torneo di calcio con Kappa. Quanto è Hip Hop tutto questo!”

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Foto @ Giulia Feleppa

Trend, contaminazioni, evoluzioni e il DJing: che traiettorie sta intraprendendo? “L’AI ha sicuramente ampliato ulteriormente ogni tipo di orizzonte creativo.
L’esperienza che si può costruire col pubblico è sempre più intima, personale e trasformativa. Quindi chi lo sa, magari in futuro, oltre all’aspetto più imprenditoriale legato al mondo degli eventi, tutto questo interesse che ho sulle tematiche come accessibilità e ispirazione collettiva potrebbe aprire una strada verso nuove forme di partecipazione. Per il momento mi godo il viaggio: ho recentemente incaricato mia madre di seguire quello che sarà l’aspetto più sociale e no-profit di wegoing mentre con Sergio stiamo curando i calendari e le logistiche degli eventi in modo più preciso per provare a dare a ognuno lo spazio che si merita e nel frattempo non rimetterci di salute (come indubbiamente mi stava capitando nell’ultima stagione). Stiamo facendo continui passi avanti ma, onestamente, mi sento ancora lontano dalla meta per dovermi preoccupare dell’atterraggio.”

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